lunedì 2 luglio 2012


Solitudine  (Sonetto XXIX)

Quando in viso alla fortuna e agli uomini,
in solitudine piango il mio reietto stato
ed ossessiono il sordo cielo con futili lamenti
e valuto me stesso e maledico il mio destino:

volendo esser simile a chi è più ricco di speranze,
simile a lui nel tratto, come lui con molti amici
e bramo l'arte di questo e l'abilità di quello,
per nulla soddisfatto di quanto mi è più caro:

se quasi detestandomi in queste congetture
mi accade di pensarti, ecco che il mio spirito,
quale allodola che s'alzi al rompere del giorno
della cupa terra, eleva canti alle porte del cielo;

quel ricordo del tuo dolce amor tanto m'appaga
ch'io più non muto l'aver mio con alcun regno.

William Shakespeare


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