mercoledì 28 novembre 2012


Ode al cane

Il cane mi domanda e non rispondo.
Salta, corre pei campi e mi domanda
senza parlare
e i suoi occhi son due domande umide,
due fiamme
liquide
interroganti
e non rispondo, non rispondo perché non so
e niente posso dire.

In mezzo ai campi andiamo,
uomo e cane.

Luccicano le foglie come se qualcuno
le avesse baciate ad una ad una,
salgono dal suolo tutte le arance
a collocare piccoli planetari
in alberi rotondi
come la notte e verdi
e uomo e cane andiamo, fiutando il mondo,
scuotendo il trifoglio,
tra le limpide dita di settembre.
Il cane si arresta, corre dietro alle api,
salta l'acqua irrequieta,
ascolta lontanissimi latrati,
orina su una pietra
e porta la punta del suo muso a me,
come un regalo.
Tenera impertinenza per palesare affetto!
e fu a quel punto che mi chiese,
con gli occhi,
perché ora è giorno, perché verrà la notte,
perché la primavera non portò nel suo cesto
nulla per cani vagabondi,
ma inutili fiori, fiori e ancora fiori.
questo mi chiede il cane, e non rispondo.

Andiamo avanti,
uomo e cane, appaiati dal mattino verde,
dall'eccitante vuota solitudine
in cui solo noi esistiamo,
questa coppia di un cane rugiadoso
e un poeta del bosco,
perché non esistono
uccelli o fiori occulti,
ma profumi e gorgheggi
per due compagni:
un mondo inumidito dalle distillazioni della notte,
un tunnel verde e poi una prateria,
una raffica di vento aranciato,
il sussurro delle radici,
la vita che cammina,
respira,
cresce
e l'antica amicizia,
la gioia di esser cane e di esser uomo
tramutata in un solo animale
che cammina muovendo sei zampe
e una coda intrisa di rugiada.

Pablo Neruda


sabato 24 novembre 2012


Quelle come me
Quelle come me regalano sogni,
anche a costo di rimanerne prive…
Quelle come me donano l’Anima,
perché un’anima da sola è come
una goccia d’acqua nel deserto…
Quelle come me tendono la mano
ed aiutano a rialzarsi, pur correndo il rischio
di cadere a loro volta…
Quelle come me guardano avanti,
anche se il cuore rimane sempre qualche passo indietro…
Quelle come me cercano un senso all’esistere e,
quando lo trovano, tentano d’insegnarlo
a chi sta solo sopravvivendo…
Quelle come me quando amano, amano per sempre…
e quando smettono d’amare è solo perché
piccoli frammenti di essere giacciono
inermi nelle mani della vita…
Quelle come me inseguono un sogno…
quello di essere amate per ciò che sono
e non per ciò che si vorrebbe fossero…
Quelle come me girano il mondo
alla ricerca di quei valori che, ormai,
sono caduti nel dimenticatoio dell’anima…
Quelle come me vorrebbero cambiare,
ma il farlo comporterebbe nascere di nuovo…
Quelle come me urlano in silenzio,
perché la loro voce non si confonda con le lacrime…
Quelle come me sono quelle cui tu riesci
sempre a spezzare il cuore,
perché sai che ti lasceranno andare,
senza chiederti nulla…
Quelle come me amano troppo, pur sapendo che,
in cambio, non riceveranno altro che briciole…
Quelle come me si cibano di quel poco e su di esso,
purtroppo, fondano la loro esistenza…
Quelle come me passano inosservate,
ma sono le uniche che ti ameranno davvero…
Quelle come me sono quelle che,
nell’autunno della tua vita,
rimpiangerai per tutto ciò che avrebbero potuto darti
e che tu non hai voluto…

Alda Merini


giovedì 22 novembre 2012


(dal) Manfred

Odimi, odimi, Astarte,
amata, parlami! Tanto ho sofferto
e soffro ancora tanto. Guardami!
La tua fossa non ti ha mutato tanto
quant'io son mutato per te.
Troppo mi amasti, come io ti amai.
Non eravamo fatti per torturarci così,
quantunque fosse il più empio dei peccati
amarci come noi ci amammo...
Dimmi che tu non mi detesti...
Che io sconto il castigo per entrambi,
che tu sarai del numero beato,
e io morrò... Perché finora tutto
quel che odio cospira a incatenarmi
all'esistenza, a una vita che mi esclude
dall'immortalità, dove il futuro
è simile al passato. Non ho tregua.
Non so che cosa chiedere o cercare.
Sento soltanto quello che tu sei
e io sono. Ma, prima di morire
vorrei udire di nuovo quella voce
che era la mia musica.
Parlami! Ti ho invocato nelle notti
serene, ho spaventato gli uccelli
addormentati tra i silenziosi rami,
per chiamare te.
Ho risvegliato i lupi montani
ho appreso alle caverne a riecheggiare
invano il nome tuo adorato; tutto
rispose, tranne la tua voce. Parlami!
Ho errato sulla terra e non ho mai
trovato a te l'uguale. Parlami!
T'ho cercato tra le stelle a venire,
ho contemplato il cielo inutilmente,
senza trovarti mai. Parlami! Guarda,
i demoni a me attorno, hanno pietà
di me che non li temo ed ho pietà
per te soltanto. Parlami!
Sdegnata, se vuoi, ma parlami!
Dimmi non so che cosa, ma che io ti senta
una volta ancora...


Carmelo Bene


martedì 20 novembre 2012


Lisbona, 14 marzo 1916
Mio caro Sa-Carneiro,
Le scrivo oggi per necessità sentimentale, per una struggente ansia di parlare con Lei. Come si desume da quanto segue, non ho niente da dirLe. 
Solo questo: che oggi ho toccato il fondo di una depressione senza fondo. L'assurdità della frase parla per me. Oggi mi trovo in uno di quei giorni in cui non ho mai avuto futuro. C'è solo il presente: immobile come un muro di angoscia tutto attorno. L'altra riva del fiume, in quanto è quella di là, non è mai quella di qua: e questa è l'intima ragione di ogni mia sofferenza. Ci sono navi dirette verso molti porti, ma nessuna verso dove la vita non dolga, perché non si può sbarcare nel porto della dimenticanza. Tutto ciò è accaduto molto tempo fa, ma la mia pena è più antica. In giorni dell'anima come questo io sento perfettamente, con tutta la coscienza del mio corpo, di essere il bambino triste che la vita ha malmenato. Mi hanno messo in un canto da dove sento gli altri che giocano. tengo fra le mani il giocattolo rotto che mi hanno regalato per un'ironia di latta. Oggi la mia vita si rende conto perfettamente di tutto ciò. Nel giardino che scorgo fra le silenziose finestre della mia prigionia, hanno spinto tutte le altalene più in alto dei rami cui erano attaccate; sono attorcigliate troppo in alto; e così neanche l'idea di essere fuggito può, nella mia immaginazione, disporre di un'altalena per dimenticare l'ora presente. Questo all'incirca, ma detto senza stile, è il mio stato d'animo in questo momento. Come alla vegliatrice del Marinheiro, mi bruciano gli occhi per aver immaginato di piangere. La vita mi duole a pezzi, a sorsate, per interstizi. Tutto ciò è stampato a caratteri minuscoli in un libro dalla brossura che si sta scucendo. Se non stessi scrivendo proprio a Lei, sarei obbligato a giurare che sto scrivendo una lettera sincera e che e che le cose dal nesso isterico che essa contiene sono scaturite spontaneamente da quanto ho nell’animo. Ma Le i capirà perfettamente che questa irrappresentabile tragedia ha la stessa realtà di un attaccapanni o di una tazzina –piena di qui e di ora, e che passa dentro di me come il verde passa nelle foglie.(…)
La mia non è pazzia; ma anche la pazzia deve procurare un abbandono nei riguardi di ciò che ci fi soffrire un astuto piacere degli sbigottimenti dell’animo non molto differenti dal mio.
Di che colore sarà sentire?
Migliaia di abbracci dal sempre Suo

Fernando Pessoa



(da) Lettera ad Armando Côrtes Rodrigues           Lisbona, 19 gennaio 1915

(…)La mia crisi è del tipo delle grandi crisi psichiche, che sono sempre crisi di incompatibilità, quando non con gli altri, certamente con se stessi. La mia, ora, non è di incompatibilità con me stesso; l’autodisciplina che ho gradualmente conquistato è riuscita a unificare dentro di me tutti quegli elementi divergenti del mio carattere che erano suscettibili di essere armonizzati. Ho ancora molto da intraprendere nel mio spirito; perciò sono ancora molto lontano da quell’unificazione che vorrei. Ma, come ho detto, non è da qui che provengono i motivi del mio attuale sconforto.
La crisi di incompatibilità con gli altri, sia chiaro fin d’ora, non è una incompatibilità violenta come se risultasse da divergenze nitide e dichiarate di entrambe le parti. Si tratta di ben altro. L’ incompatibilità è sentita da me, dentro di me, ed è in me che sta tutto il peso della mia divergenza da quelli che mi circondano. Il fatto che io ora mi trovi a vivere solo viene ad aggravare questo mio stato di spirito, perché mi lascia a nudo con la mia anima, senza affetti e senza interessi familiari vicini che possano sviare da me la mia attenzione. Si aggiunga poi che mi trovo a vivere da mesi in una sensazione di profonda incompatibilità con le persone che mi circondano.
in nessuno di quelli che mi circondano io trovo un atteggiamento verso la vita che sia in sincronia con la mia intima sensibilità, con le mie aspirazioni e con le mie ambizioni, con tutto quanto costituisce il fondamento  e l’essenza del mio intimo essere spirituale. (…)


Fernando Pessoa


domenica 18 novembre 2012


Concludendo

Vivo sull’acqua,
solo. Senza moglie né figli.
Ho circumnavigato ogni possibilità
per arrivare a questo:
una piccola casa su acqua grigia,
con le finestre sempre spalancante
al mare stantio.

Certe cose non le scegliamo noi,
ma siamo quello che abbiamo fatto.
Soffriamo, gli anni passano, lasciamo
tante cose per via, fuorché il bisogno
di fardelli.

L’amore è una pietra
che si è posata sul fondo del mare
sotto acqua grigia. Ora, non chiedo nulla
alla poesia, se non vero sentire:
non pietà, non fama, non sollievo.

Tacita sposa,
noi possiamo sederci a guardare acqua grigia,
e in una vita che trabocca
di mediocrità e rifiuti
vivere come rocce.

Scorderò di sentire,
scorderò il mio dono. E’ più grande e duro,
questo, di ciò che là passa per vita.

Dereck Walkott



Penziere mieje...

Penziere mieje, levàteve sti panne,
stracciàtev' 'a cammisa, e ascite annuro.
Si nun tenite n'abito sicuro,
tanta vestite che n'avit' 'a fa?

Menàteve spugliate mmiez' 'a via,
e si facite folla, cammenate.
Si sentite strillà, nun ve fermate:
nu penziero spugliato 'a folla fa.

Currite ncopp' 'a cimma 'e na muntagna,
e quanno 'e piede se sò cunzumate:
un'ànema e curaggio, e ve menate...
nzerrano ll'uocchie, primm' 'e ve menà!

Ca ve trovano annuro? Nun fa niente.
Ce sta sempe nu tizio canusciuto,
ca nun 'o ddice... ca rimmane muto...
e ca ve veste, primm' 'e v'atterrà.

Eduardo De Filippo



Ammore perduto

Ammore perduto,
i' t'ero truvato,
nun aggio saputo
tenerte cu mme.
Ammore perduto,
mm'ha ditto stu core
ca tarde ha saputo
tu ch'ire pe mme.

Antonio de Curtis - in arte Toto' 



Napule, tu e io

Io voglio bene a Napule
pecchè 'o paese mio
è cchiù bello 'e na femmena,
carnale e simpatia.
E voglio bene a te
ca si napulitana
pecchè si comm'a me
cu tanto 'e core 'mmano.
Saje scrivere, saje leggere
parole 'e passione;
saje ridere, saje chiagnere
sentenno na canzona.
Napule, tu e io...
simme tre 'nnammurate:
simmo na cosa sola,
gentile e appassiunata.
Nuie simmo 'e figlie 'e Napule,
Vommero, Margellina :
quanno se dice "Napule"
s'annomena 'a riggina!

Antonio de Curtis - in arte Toto' 



‘A livella

Ogn'anno,il due novembre,c'é l'usanza
per i defunti andare al Cimitero.
Ognuno ll'adda fà chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.
Ogn'anno,puntualmente,in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch'io ci vado,e con dei fiori adorno
il loculo marmoreo 'e zi' Vicenza.

St'anno m'é capitato 'navventura...
dopo di aver compiuto il triste omaggio.
Madonna! si ce penzo,e che paura!,
ma po' facette un'anema e curaggio.

'O fatto è chisto,statemi a sentire:
s'avvicinava ll'ora d'à chiusura:
io,tomo tomo,stavo per uscire
buttando un occhio a qualche sepoltura.

"Qui dorme in pace il nobile marchese
signore di Rovigo e di Belluno
ardimentoso eroe di mille imprese
morto l'11 maggio del'31"

'O stemma cu 'a curona 'ncoppa a tutto...
...sotto 'na croce fatta 'e lampadine;
tre mazze 'e rose cu 'na lista 'e lutto:
cannele,cannelotte e sei lumine.

Proprio azzeccata 'a tomba 'e stu signore
nce stava 'n 'ata tomba piccerella,
abbandunata,senza manco un fiore;
pe' segno,sulamente 'na crucella.

E ncoppa 'a croce appena se liggeva:
"Esposito Gennaro - netturbino":
guardannola,che ppena me faceva
stu muorto senza manco nu lumino!

Questa è la vita! 'ncapo a me penzavo...
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero maronna s'aspettava
ca pur all'atu munno era pezzente?

Mentre fantasticavo stu penziero,
s'era ggià fatta quase mezanotte,
e i'rimanette 'nchiuso priggiuniero,
muorto 'e paura...nnanze 'e cannelotte.

Tutto a 'nu tratto,che veco 'a luntano?
Ddoje ombre avvicenarse 'a parte mia...
Penzaje:stu fatto a me mme pare strano...
Stongo scetato...dormo,o è fantasia?

Ate che fantasia;era 'o Marchese:
c'o' tubbo,'a caramella e c'o' pastrano;
chill'ato apriesso a isso un brutto arnese;
tutto fetente e cu 'nascopa mmano.

E chillo certamente è don Gennaro...
'omuorto puveriello...'o scupatore.
'Int 'a stu fatto i' nun ce veco chiaro:
so' muorte e se ritirano a chest'ora?

Putevano sta' 'a me quase 'nu palmo,
quanno 'o Marchese se fermaje 'e botto,
s'avota e tomo tomo..calmo calmo,
dicette a don Gennaro:"Giovanotto!

Da Voi vorrei saper,vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir,per mia vergogna,
accanto a me che sono blasonato!

La casta è casta e va,si,rispettata,
ma Voi perdeste il senso e la misura;
la Vostra salma andava,si,inumata;
ma seppellita nella spazzatura!

Ancora oltre sopportar non posso
la Vostra vicinanza puzzolente,
fa d'uopo,quindi,che cerchiate un fosso
tra i vostri pari,tra la vostra gente"

"Signor Marchese,nun è colpa mia,
i'nun v'avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie è stata a ffa' sta fesseria,
i' che putevo fa' si ero muorto?

Si fosse vivo ve farrei cuntento,
pigliasse 'a casciulella cu 'e qquatt'osse
e proprio mo,obbj'...'nd'a stu mumento
mme ne trasesse dinto a n'ata fossa".

"E cosa aspetti,oh turpe malcreato,
che l'ira mia raggiunga l'eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato
avrei già dato piglio alla violenza!"

"Famme vedé..-piglia sta violenza...
'A verità,Marché,mme so' scucciato
'e te senti;e si perdo 'a pacienza,
mme scordo ca so' muorto e so mazzate!...

Ma chi te cride d'essere...nu ddio?
Ccà dinto,'o vvuo capi,ca simmo eguale?...
...Muorto si'tu e muorto so' pur'io;
ognuno comme a 'na'ato é tale e quale".

"Lurido porco!...Come ti permetti
paragonarti a me ch'ebbi natali
illustri,nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?".

"Tu qua' Natale...Pasca e Ppifania!!!
T''o vvuo' mettere 'ncapo...'int'a cervella
che staje malato ancora e' fantasia?...
'A morte 'o ssaje ched''e?...è una livella.

'Nu rre,'nu maggistrato,'nu grand'ommo,
trasenno stu canciello ha fatt'o punto
c'ha perzo tutto,'a vita e pure 'o nomme:
tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò,stamme a ssenti...nun fa''o restivo,
suppuorteme vicino-che te 'mporta?
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"

Antonio de Curtis - in arte Toto' 


venerdì 16 novembre 2012


Taci, anima mia. Son questi i tristi

Taci, anima mia. Son questi i tristi
giorni in cui senza volontà si vive,
i giorni dell'attesa disperata.
Come l'albero ignudo a mezzo inverno
che s'attrista nell'ombra della corte,
io non credo di mettere più foglie
e dubito d'averle messe mai.

Camminando solo
tra la gente che m'urta e non mi vede,
mi pare d'esser da me stesso assente.
E m'accalco ad udire dov'è ressa,
sosto dalle vetrine abbarbagliato
e mi volgo al frusciare d'ogni gonna.
Per la voce d'un cantastorie cieco
per l'improvviso lampo d'una nuca
mi sgocciolan dagli occhi sciocche lacrime
mi s'accendon negli occhi cupidigie.
Ché tutta la mia vita nei miei occhi
ogni cosa che passa la. commuove
come debole vento un'acqua morta.

Non sono che uno specchio rassegnato
che riflette ogni cosa per la via.
In me stesso non guardo perché nulla
vi troverei.

E, venuta la sera, nel mio letto
mi stendo lungo come in una bara.

Camillo Sbarbaro



Il mio passato

Spesso ripeto sottovoce
che si deve vivere di ricordi solo
quando mi sono rimasti pochi giorni.
Quello che è passato
è come se non ci fosse mai stato.
Il passato è un laccio che
stringe la gola alla mia mente
e toglie energie per affrontare il mio presente.
Il passato è solo fumo
di chi non ha vissuto.
Quello che ho già visto
non conta più niente.
Il passato ed il futuro
non sono realtà ma solo effimere illusioni.
Devo liberarmi del tempo
e vivere il presente giacché non esiste altro tempo       
che questo meraviglioso istante.

Alda Merini




Lettere

Rivedo le tue lettere d’amore
illuminata adesso da un distacco,
senza quasi rancore.

L’illusione era forte a sostenerci,
ci reggevamo entrambi negli abbracci,
pregando che durassero gli intenti.
Ci promettemmo il sempre degli amanti,
certi nei nostri spiriti divini.

E hai potuto lasciarmi,
e hai potuto intuire un’altra luce
che seguitasse dopo le mie spalle.

Mi hai resuscitato dalle scarse origini
con richiami di musica divina,
mi hai resa divergenza di dolore,
spazio, per la tua vita di ricerca
per abitarmi il tempo di un errore.

E mi hai lasciato solo le tue lettere,
onde io le ribevessi nella tua assenza.

Alda Merini



Una stagione

Questa donna una volta era fatta di carne
fresca e solida: quando portava un bambino,
si teneva nascosta e intristiva da sola.
Non amava mostrarsi sformata per strada.
Le altre volte (era giovane e senza volerlo
fece molti bambini) passava per strada
con un passo sicuro e sapeva godersi gli istanti.
I vestiti diventano vento le sere di marzo
e si stringono e tremano intorno alle donne che passano.
Il suo corpo di donna muoveva sicuro nel vento
che svaniva lasciandolo saldo. Non ebbe altro bene
che quel corpo, che adesso è consunto dai troppi figliuoli.

Nelle sere di vento si spande un sentore di linfe,
il sentore che aveva da giovane il corpo
tra le vesti superflue. Un sapore di terra bagnata,
che ogni marzo ritorna. Anche dove in città non c’è viali
e non giunge col sole il respiro del vento,
il suo corpo viveva, esalando di succhi
in fermento, tra i muri di pietra. Col tempo, anche lei,
che ha nutrito altri corpi, si è rotta e piegata.
Non è bello guardarla, ha perduto ogni forza;
ma, dei molti, una figlia ritorna a passare
per le strade, la sera, e ostentare nel vento
sotto gli alberi, solido e fresco, il suo corpo che vive.

E c’è un figlio che gira e sa stare da solo
e si sa divertire da solo. Ma guarda nei vetri,
compiaciuto del modo che tiene a braccetto
la compagna. Gli piace, d’un gioco di muscoli,
accostarsela mentre rilutta e baciarla sul colle.
Sopratutto gli piace, poi che ha generato
su quel corpo, lasciarlo intristire e tornare a se stesso.
Un amplesso lo fa solamente sorridere e un figlio
lo farebbe indignare. Lo sa la ragazza, che attende,
e prepara se stessa a nascondere il ventre sformato
e si gode con lui, compiacente, e gli ammira la forza
di quel corpo che serve per compiere tante altre cose.
  
Cesare Pavese